Il ruolo del Therapeutic
Drug Monitoring (TDM)
Il Therapeutic Drug Monitoring, meglio noto con l’acronimo di TDM, rappresenta un esempio di ricaduta clinica pratica dell’attività di laboratorio farmacologica. Come noto consiste nella determinazione delle concentrazioni plasmatiche di un farmaco e nell’eventuale variazione posologica sulla base di tali risultanze. Il TDM, per l’appunto monitoraggio delle concentrazioni terapeutiche del farmaco, è uno strumento operativo disponibile da tempo per l’ottimizzazione dei dosaggi di farmaci come la digitale, gli anticoagulanti, gli anticonvulsivanti, taluni antibiotici. Il concetto fondamentale è rappresentato dalla presenza di un’efficacia ed una tossicità entrambe strettamente concentrazione-dipendenti, tali da individuare un range ottimale di concentrazioni entro il quale mantenere i livelli plasmatici del farmaco stesso con gli opportuni aggiustamenti posologici. Nel caso del warfarin il range terapeutico ottimale è rappresentato non tanto dalle concentrazioni di farmaco ma dal suo marker di attività farmacodinamica, ovvero il valore di tempo di protrombina.
La farmacologia clinica degli antiretrovirali come è noto ha compiuto degli importanti progressi negli ultimi anni. In realtà datano oramai a circa 10 anni le prime evidenza di caratteristiche farmacologiche degli inibitori della proteasi potenzialmente adattabili alla applicazione del TDM, ma ovviamente la ricerca e la definizione dei contesti di applicabilità clinica hanno richiesto e, in alcuni ambiti, ancora richiedono adeguate indagini conoscitive ed esplorative.
Razionale del TDM
Il presupposto fondamentale dell’applicazione clinica del TDM è rappresentato dall’utilità dell’informazione ottenibile dal dosaggio plasmatico di un dato farmaco antiretrovirale. Pertanto la concentrazione plasmatica del farmaco dovrà essere correlata all’efficacia e/o tossicità dello stesso, in modo da fornire al clinico suggerimenti pratici in merito alle eventuali ed opportune variazioni di dosaggio. Si può ipotizzare a tutt’oggi che efficacia e tossicità dei farmaci antiretrovirali siano concentrazione-dipendenti?
In primis bisogna sottolinerare come la maggior parte delle conoscenze attuali di farmacologia clinica degli antiretrovirali riguardino essenzialmente le classi degli inibitori della proteasi (PI) e degli inibitori non-nucleosidici della trascrittasi inversa (NNRTI). Le concentrazioni plasmatiche di tali composti si ritiene, infatti, che siano in uno stato di sostanziale equilibrio con le concentrazioni presenti all’interno della cellula, che ricordiamo essere il sito di attività di tutte queste molecole (1). Ne consegue che la misurazione delle prime dovrebbe rappresentare un buon surrogato delle seconde, pur tenendo conto del fatto che l’equilibrio relativo tra i due ambienti farmacocinetici varia molto in termini quantitativi da un composto all’altro. Per quanto attiene agli inibitori nucleosidici o nucleotidici della trascrittasi inversa (Nt/NRTI) il discorso si complica, in quanto tali farmaci richiedono un’attivazione endocellulare costituita di tappe successive di fosforilazione. In tal caso i parametri farmacocinetici plasmatici non riflettono il reale metabolismo endocellulare del farmaco e, conseguentemente, non ci danno informazioni attendibili sulla loro attività (2). Per questo allo stato attuale la misurazione delle concentrazioni plasmatiche degli Nt/NRTI non riveste un ruolo di importanza clinica. Le prime evidenze di una correlazione tra livello di esposizione plastica ed efficacia antivirale dei PI in realtà datano quasi un decennio (3), pur se negli ultimi anni il meccanismo è apparso più chiaro. In un parallelo con la farmacodinamica degli antibiotici, i PI e gli NNRTI riconoscono un meccanismo prevalentemente di tempo-dipendenza. Ciò sta a significare che per tutta la durata dell’intervallo di dosaggio le concentrazioni plasmatiche di farmaco devono essere superiori alla minima concentrazione inibente l’attività del virus (IC50 o IC90) (4). Da qui l’importanza della determinazione della Ctrough o concentrazione di valle del farmaco, ritenuta comunemente la concentrazione plasmatica minima del composto stesso, pur se tale identificazione non è sempre reale da un punto di vista squisitamente farmacocinetico.
Per quanto attiene alla tossicità si è soliti considerare la concentrazione massima o Cmax di un farmaco come elemento chiave del suo determinismo. Essendo quest’ultima più difficilmente misurabile nella pratica clinica per ragioni logistico-organizzative legate alle tempistiche di prelievo in regime ambulatoriale, e costituendo i parametri farmacocinetici principali delle covariate, la Ctrough può a pieno titolo rappresentare una sorta di indicatore della Cmax, ed in ultima istanza poter essere utilizzata anche come parametro di tossicità e non solamente di efficacia.
Soddisfatti i criteri metodologici, il punto fondamentale è chiedersi se sia noto un chiaro range terapeutico per ciascun farmaco antiretrovirale. A tutt’oggi sono state individuate per PI ed NNRTI le minime concentrazioni efficaci (MEC) di Ctrough da garantire nel paziente con virus wild type al fine di ottenere il successo virologico, i valori delle quali sono riportate in Tabella 1. Per quello che attiene invece ai valori massimi di Ctrough, ovvero ai limiti superiori del range ottimale di concentrazioni plasmatiche, essi sono stati chiaramente individuati solo nel caso di indinavir ed efavirenz (rispettivamente a 500 e 4000 ng/ml) sulla scorta delle evidenze di nefrotossicità e tossicità neuropsichica concentrazione-dipendenti (4,5). Da segnalare che efavirenz rappresenta l’unico farmaco per il quale non si utilizza la Ctrough come parametro di valutazione, bensì il valore di concentrazione dopo 8-14 ore dall’assunzione, considerando la preferibile monosomministrazione dello stesso nelle ore serali. In nessun altro caso è stata evidenziata una chiara correlazione tra livello di esposizione al farmaco ed effetto tossico. Ad ogni modo poco oltre ritorneremo su tale tematica.
Una volta verificato il razionale farmacodinamico, l’applicazione clinica del TDM richiede anche un presupposto di tipo squisitamente farmacocinetico, ovvero che la ampia variabilità interindividuale delle concentrazioni plasmatiche del farmaco in questione sia associata ad una limitata variabilità intraindividuale. Questo giustifica il fatto che, al raggiungimento dello steady state, la singola determinazione delle concentrazioni plasmatiche sia utilizzabile come espressione del livello di esposizione al farmaco del paziente. Tale caratteristica è stata messa in evidenza in primo luogo per gli inibitori della proteasi (6), e successivamente si è rivelata tale anche per quanto attiene altri composti antiretrovirali, quali gli NNRTI e persino per enfuvirtide.
Ricordiamo che il possibile utilizzo del TDM come strumento clinico nel management della terapia antiretrovirale è sottolineato in tutte le più recenti edizioni delle linee guida internazionali (4, 7-9) pur con differenze in merito al livello di forza ed evidenza. Passeremo in rassegna critica alcuni scenari possibili o presunti di uso clinico.
Allo stato attuale nessuna linea guida lo consiglia nei pazienti naive od alle prime linee di terapia antiretrovirale, sebbene alcuni studi abbiano dimostrato un migliore outcome virologico ed una migliore tollerabilità proprio in questi ambiti. Un classico esempio in tal senso è rappresentato da un sottostudio del trial ATHENA (10), ove si dimostrava che nei pazienti naive che iniziavano una terapia contenete nelfinavir (NFV) o indinavir (IDV), all’epoca non potenziato da boosting, la correzione della posologia al fine di mantenere le Ctrough del primo al di sopra delle MEC e la Ctrough del secondo compresa tra la MEC e il limite di tossicità legato alla nefrolitiasi garantivano miglioramenti statisticamente significativi sia dell’efficacia virologica che della tossicità correlata ad IDV. Questi sono pertanto ottimi studi purtroppo però superati dall’evoluzione farmacologica. Infatti i PI di prima generazione, non potenziati da boosting di ritonavir (RTV), presentavano un profilo farmacocinetico relativamente fragile, con Ctrough medie ai limiti, e spesso al di sotto, della MEC oltrechè posologie complesse, pertanto il rilievo di concentrazioni plasmatiche insufficienti non era certo infrequente sulla base della variabilità interindividuale (11). L’utilizzo attuale di PI con il boosting di RTV garantisce profili farmacocinetici di gran lunga più favorevoli, laddove i valori di Ctrough sono ben al di sopra dei rispetti valori di MEC, pur tenendo conto della variabilità interindividuale. Pertanto nessuno studio sulla falsariga dei precedenti è stato condotto con i PI di più recente generazione utilizzati in prima linea ed esistono buoni motivi per ritenerli non necessari. L’utilizzo del TDM in questi pazienti si può rendere utile sulla base di problematiche o sospetti specifici, quali quelli che saranno di seguito affrontati. Analogo discorso vale per gli NNRTI, seppur presentino profili farmacocinetici meno favorevoli rispetto ai PI potenziati. Per nevirapina (NVP) si era ipotizzata la possibilità in tal senso, in funzione di valori medi di Ctrough prossimi alla MEC (3400 ng/ml) (12) e di un possibile rapporto tra concentrazione plasmatica ed epatotossicità (vedi oltre) (13) . In realtà lo stesso studio ATHENA non ha dimostrato una reale vantaggio clinico nell’adozione routinaria del TDM di NVP (14)
L’ambito specifico delle interazioni farmacologiche, di complessità crescente nel panorama della farmacopea degli antiretrovirali, verrà trattato in un capitolo a parte di questo manuale. La problematica delle interazioni ha rappresentato forse il primum movens all’applicazione clinica del TDM e tutt’ora ne rappresenta uno degli scenari clinici di più frequente necessità (15) ono almeno due ordini di fattori da considerare. Le informazioni che giungono al clinico in merito alle raccomandazioni relative ad una interazione farmacologica spesso non sono esaustive o comunque lasciano un notevole margine di arbitrarietà. Inoltre gli studi di farmacocinetica che delineano i potenziali di alterazione spesso sono di numerosità limitata, tale da non poter comprendere la variabilità interindividuale nella pratica clinica. Ne consegue che il clinico spesso ha un orientamento generale in merito alle problematiche relative ad una specifica interazione, ma poi solo il TDM eseguito sul singolo paziente può fornire l’esatta percezione dell’entità di tale interazione. Prendiamo per esempio la problematica quanto mai attuale dell’interazione tra farmaci che modificano il ph gastrico e l’assorbimento di atazanavir (ATV). La generale controindicazione a tale cosomministrazione si basa su uno studio di farmacocinetica riguardante l’assunzione contemporanea di omeprazolo al dosaggio di 40 mg e ATV (16). Successivamente altri studi hanno dimostrato il potenziale di interazione a livello dell’assorbimento di quest’ultimo, mentre una buona parte di studi osservazionali di TDM effettuati nella pratica clinica non hanno uniformemente riscontrato concentrazioni di ATV inferiori a quanto atteso (17). Verosimilmente il problema di interazione sicuramente esiste, a differenza di quanto riscontrato per gli altri PI. E’ pur vero che probabilmente l’entità dell’interazione è in funzione della separazione temporale tra i due farmaci (ricordiamo che avviene a livello di assorbimento di ATV) e della durata dell’effetto inibente la discesa del ph gastrico a livelli inferiori a 4, a sua volta legata alla tipologia di farmaco ed al suo dosaggio (18). Pertanto la cosomminisrazione di ranitidina (ad attività minore rispetto agli inibitori di pompa protonica) distanziata di un numero sufficiente di ore sembra percorribile, così come non è noto l’effetto di dosi minori di omeprazolo (20 mg) similarmente distanziate. Inoltre la variabilità interindividuale delle variazioni di ph gastrico rappresenta un altro elemento da considerare. In attesa di studi di farmacocinetica più completi, la risultante è che tale associazione è sconsigliata, ma se obbligata dalle circostanze clinica, va percorsa solo su quest’ultima falsariga con utilizzo del TDM.
Per quanto attiene ai PI ed agli NNRTI abbiamo poco sopra ricordato i valori di MEC, ovvero di concentrazione plasmatica minima alla fine dell’intervallo di dosaggio che si associa all’efficacia terapeutica nel paziente con virus wild type. Nel caso di paziente con pregessi fallimenti a regimi contenenti PI invece il problema si complica, laddove la definizione generica di una minima concentrazione efficace è impossibile sulla base della estrema variabilità dei possibili pattern di resistenza: la selezione progressiva di mutazioni di resistenza, specie nel caso di PI come lopinavir (LPV), fosamprenavir (fosAPV), tipranavir (TPV), determina la richiesta farmacodinamica di maggiore esposizione farmacologia, ed, in ultima analisi, di concentrazioni efficaci maggiormente elevate. Per questo si è cercato di codificare un parametro, il Quoziente Inibitorio (QI), che consideri entrambi gli elementi in gioco (19). Esso è dato infatti dal rapporto tra Ctrough di un PI e sensibilità fenotipica. In virtù della difficoltà e del costo di definizione di quest’ultima, si sono proposti alcuni surrogati, quali il QI genotipico, nel quale il denominatore di sensibilità farmacologica è vicariato dal numero di mutazioni nel gene proteasi legate a possibile resistenza al PI stesso, o dal QI normalizzato o NIQ, dove si confronta il QI genotipico del paziente con uno standard di riferimento (19). Esistono a tutt’oggi parecchie evidenze sulla predittività di successo virologico dei differenti QI nel trattamento dei soggetti multifalliti. Per alcuni dei PI di maggiore utilizzo attuale (LPV, fosAPV, ATV e TPV), si sono evidenziati in studi prospettici valori di cut off del QI genotipico relativamente alle possibilità di risposta virologica, potenzialmente utilizzabili nella pratica clinica (20-23). Per esempio, il calcolo di un gIQ superiore a 200 per ATV, a 1000 per LPV od a 250 per APV (calcolando le concentrazioni in ng/ml) rappresenta un predittore di successo virologico della terapia in atto e potrebbe essere un elemento di valutazione clinica pratica della congruità della terapia stessa. La difficoltà legata al disegno ed all’esecuzione di studi randomizzati è rappresentata dalla scelta dello scenario più adatto nel quale misurare l’utilità clinica dell’IQ, ovvero il paziente più estesamente multifallito, nel quale sia in dubbio o non facilmente prevedibile sulla base del solo genotipo la risposta ad una terapia con PI. Tale tipologia di pazienti è comunque di difficile inquadramento in studi randomizzati in quanto soggetta a relativamente rapidi cambi di terapia in funzione della disponibilità di nuovi armaci e protocolli. In conclusione, allo stato attuale mancano ancora i risultati di trials che dimostrino inequivocabilmente un vantaggio definitivamente significativo dell’utilizzo del QI nella pratica clinica, ma le lettura critica degli studi a tutt’oggi disponibili ci induce a guardare a questa possibilità con ragionevole ottimismo.
Abbiamo visto poc’anzi come valori ottimali massimi di Ctrough, ovvero ai limiti superiori del range ottimale di concentrazioni plasmatiche, siano stati chiaramente individuati solo nel caso di IDV ed e EFV (rispettivamente a 500 e 4000 ng/ml) sulla scorta delle evidenze di nefrotossicità e tossicità neuropsichica concentrazione-dipendenti (24, 25).
Se nel primo caso si tratta di un approccio terapeutico oramai in fase superata, EFV invece rappresenta uno dei farmaci antiretrovirali di più largo utilizzo. Esistono protocolli, operativi in alcuni contesti terapeutici, nei quali è previsto il monitoraggio delle concentrazioni e l’eventuale adeguamento posologico in caso di valori oltre il limite superiore del range associati ad una tossicità neuropsichica persistente (24).
In tale ambito gioca un ruolo importante la farmacogenomica, ovvero il diverso profilo di metabolizzazione del farmaco predeterminato su base genetica, legato nella fattispecie alla diversa attività delle componenti isoenzimatiche del sistema del citocromo P450. Per esempio il consiglio generico di un incremento delle dosi di efavirenz ad 800 mg/die qualora si ritrovi associato a rifampicina (26), per l’effetto induttore di quest’ultima, deve probabilmente essere valutato caso per caso sulla scorta del TDM (27). E’ dimostrato che esistano soggetti, specie tra gli africani e gli asiatici, con caratteristiche farmacogenetiche di rallentata clearance del farmaco, nei quali già in condizioni normali sono rinvenibili concentrazioni di efavirenz superiori alla media (e peggior tollerabilità neuropsichica) (27). In caso di co-somministrazione con rifampicina, in tali pazienti non esiste la necessità di un incremento di dosaggio di efavirenz, anzi questo potrebbe essere addirittura dannoso esponendo al rischio di sovradosaggio e scarsa tollerabilità.
Il nostro gruppo ha altresì individuato un potenziale cut off di concentrazione di ATV legato ad un maggior rischio di iperbilirubinemia (pari ad 800 ng/ml), anch’esso fenomeno almeno in parte concentrazione-dipendente, pur se la reale applicabilità clinica è ancora da verificare (28). Si potrebbe ipotizzare, elemento attualmente al vaglio di studi clinici, la possibilità di utilizzare tale cut off come target per un eventuale decremento di dosaggio (per esempio ATV/RTV 200/100) in pazienti stabili e senza pregressa marcata selezione di mutazioni nel gene della proteasi, i quali lamentino problemi estetici legato ad incrementi clinicamente evidente della bilirubina (ittero sclerale). Pur non essendo nel perimetro di un vero e proprio fenomeno di tossicità, concettualmente l’applicabilità del TDM non si discosta molto da quanto poc’anzi ricordato.
Anche per nevirapina è stata evidenziata una relazione tra concentrazioni più elevate (> 6000 ng/ml) e sviluppo di epatotossicità nei soggetti con co-infezione da HCV (29), ma pure in tal caso l’applicabilità clinica necessita di ulteriore definizione. Non sono noti a tutt’oggi studi clinici che abbiano esplorato la riduzione di dosaggio in tali circostanze, se non in qualche case report. Per inferenza da quanto detto in precedenza sulle covariate farmacocinetiche, probabilmente l’elevata Ctrough è riflesso di una elevata Cmax, ipotesi suggerita dalla maggiore incidenza di epatotossicità nel braccio di nevirapina once-daily rispetto al b.i.d. nello studio 2NN (30), ove è noto che la monosomministrazioine di 400 mg di nevirapina determina concentrazioni di picco significativamente più elevate.
Per quanto attiene ad altri fenomeni di potenziale tossicità concentrazione-correlata, nel recente passato sono emersi alcuni rilievi relativi ad incremento dei lipidi plasmatici e concentrazioni di lopinavir/ritonavir (31), In realtà le evidenze cliniche appaiono a tutt’oggi abbastanza contrastanti in merito, non suffragando una chiara correlazione con le concentrazioni plasmatiche dei PI in gioco, laddove sicuramente entrano in gioco fattori eziopatogenetici più complessi.
Nell’ambito dell’epatotossicità poco sopra ricordato, un esempio interessante potrebbe invece essere rappresentato da TPV, PI il cui utilizzo è risultato associato ad una quota non treascurabile di epatotossicità. Da un lato, infatti, la cosomministrazione di un booster con 200 mg b.i.d. di RTV, da molti paventata come potenziale aggiunto di epatotossicità, risulta in livelli plasmatici dello stesso comparabili al boosting classico con 100 mg b.i.d., in virtù dell’azione induttrice sul suo metabolismo di TPV (dati personali non pubblicati). Dall’altro lato, un sottostudio di farmacocinetica dei trials RESIST ha mostrato come l’incidenza degli eventi epatici di grado 3-4 sia correlabile ai livelli plasmatici di tipranavir stesso, suggerendo in tal senso una relazione più chiara di quanto non sia apparso nel passato per gli altri PI potenziati da ritonavir. Per LPV/RTV, per esempio, non è stata dimostrata alcuna correlazione tra incremento della transaminasemia e livello di farmaco nel plasma (32).
In attesa di un approfondimento specifico dell’attività di ricerca, non appare inverosimile a tutt’oggi ipotizzare un potenziale beneficio dell’applicazione del TDM di TPV, laddove esistono già evidenze di una stretta interrelazione tra efficacia e concentrazioni plasmatiche in virtù probabilmente del setting particolarmente avanzato di pazienti sino ad ora sottoposti al trattamento con tale farmaco.
In conclusione il TDM può rappresentare un valido strumento di ausilio per il clinico nelle gestione di alcune tossicità legate alla terapia antiretrovirale.
Alterazioni
del profilo farmacocinetico dovute a modificazioni fisiopatologiche
Epatopatia
Le relativamente frequente associazione di una epatopatia cronica virus e/o alcol-correlata con l’infezione da HIV può rappresentare un fattore foriero di inattesi eventi farmacologici. E’ ben noto come la maggior parte dei farmaci antiretrovirali, segnatamente i PI ed NNRTI, riconoscano un metabolismo di tipo prevalentemente epatico attraverso il sistema enzimatico del citocromo P450, in primis l’isoenzima CYP34 (33). Per questo l’epatopatia in fase avanzata costituisce un elemento di variabilità farmacocinetica, portando ad un rallentamento del metabolismo del farmaco e quindi ad un incremento delle sue concentrazioni plasmatiche. E’ da sottolineare come l’influenza sul metabolismo dei farmaci non sia uniforme, ma dipenda dallo spettro di isoenzimi coinvolti nel metabolismo stesso. Per esempio con il progredire dell’evoluzione a cirrosi decade più rapidamente l’attività del CYP2C19 rispetto a quella del CYP3A4 (33). Ne consegue che, a parità di danno epatico, il metabolismo di NFV, maggiormente dipendente dal primo isoenzima, ne risenta in maniera più significativa rispetto alla maggior parte degli altri PI, che riconoscono invece nel secondo l’isoenzima metabolizzatore principale. Un secondo fatto da tenere in considerazione è la paucità di dati presenti tutt’ora presente in questo contesto, per cui spesso eventuali consigli posologici provengono da casistiche minime o assai ridotte e non sempre generalizzabili all’ambito clinico. In terzo luogo la definizione di epatopatico cronico è quanto mai vaga, laddove spesso sino alla comparsa di una vera stato cirrotico l’alterazione del metabolismo dei farmaci è minima o nulla, eccezione fatta forse per NFV (34) ed, in parte, APV (35) di cui sopra. Questi aspetti ci devono spingere ad una valutazione critica delle tabelle di aggiustamento posologico contenute nelle linee guida ed alla consensuale necessità di utilizzo del TDM come supporto alle scelte stese. Osservando infatti la Tabella 2, espressione delle più aggiornate linee guida DHHS, si nota come chiare raccomandazioni posologiche siano citate solo per fosAPV e ATV, mentre mancano sostanzialmente negli altri casi. Questo è dovuto da un lato al già citato fatto di una minore incremento delle concentrazioni plasmatiche sino al livello di cirrosi moderata, tale da non indurre a specifici consigli posologici, come nel caso di LPV (36). D’altro canto permane la mancanza di dati clinici oggettivabili, oltrechè, come nel caso del già citato NFV, forse un mancato aggiornamento della tabella stessa. In ogni caso l’incremento delle concentrazioni plasmatiche variamente osservabile deve essere valutato sulla base del singolo caso da parte del clinico: infatti può rappresentare una occasione per una riduzione del dosaggio standard (per esempio NFV 1000 o 750 mg b.i.d.) o la possibilità di mantenere una adeguata concentrazione plasmatica senza necessità del boosting con RTV, come nei casi di ATV e fos-APV. In ogni caso, sottolineiamo nuovamente come l’imprevedibilità del pattern farmacologico nello specifico paziente imponga il TDM quale strumento di monitoraggio.
I problemi di funzionalità renale, pur meno rappresentati nel paziente HIV+ rispetto all’epatopatia, possono influenzare il metabolismo di taluni armaci antiretrovirali. Specularmente a quest’ultima, l’insufficienza renale non interessa il metabolismo di NNRTI e PI (Tabella 3), prevalentemente epatico e tale da far mantenere il dosaggio pieno di questi composti finanche al paziente in dialisi, ma può invece influenzare significativamente il metabolismo degli Nt/NRTI (37). 3TC, d4T, AZT e TDF sono noti per richiedere adeguamenti posologici in funzione dei livelli di clearance della creatinina o dell’effettuazione di dialisi (37), come riportato nel dettaglio in Tabella 3, Abbiamo poco sopra ricordato come la misura delle concentrazioni plasmatiche di tali farmaci non sia generalmente di alcuna utilità in generale nella pratica clinica. Nella fattispecie dell’insufficienza renale forse troviamo l’unico contesto nel quale potenzialmente la determinazione delle concentrazioni sieriche, almeno dei farmaci a lunga emivita come TDF, potrebbe fornire informazioni sull’opportunità del dosaggio perseguito. Infatti, pur latitando ovviamene studi clinici all’uopo, non è azzardato pensare di confrontare la concentrazione plasmatica di TDF con i valori di riferimento, e trarne di conseguenza spunti per la valutazione dell’adeguatezza del dosaggio suggerito.
Gravidanza
L’ambito è più che mai di estrema attualità, stante il continuo incremento di pazienti HIV-positive che intraprendono una gravidanza con la conseguente necessità dell’effettuazione di HAART nel corso della stessa. Le modificazioni fisiologiche dell’organismo femminile nel corso della gravidanza conducono anche a modifiche del profilo farmacocinetico degli antiretrovirali, per una serie di concause tra le quali l’emodiluizione e l’aumento del volume di distribuzione, l’incremento dell’attività del sistema del citocromo P450, le variazione di proteinemia (38). La risultante netta è rappresentata da una progressiva riduzione, trimestre per trimestre, delle concentrazioni medie dei PI, mentre il fenomeno non appare significativo per NVP e per gli NRTI (38). Tale riduzione dell’esposizione plasmatica è stata messa in evidenza in primis per NFV, a lungo il PI più utilizzato in questo contesto, per il quale esistono dimostrazioni convincenti della necessità del TDM e di frequenti incrementi di dosaggio (1500-1750 b.i.d.) nel terzo trimestre (38). Anche per i PI utilizzati con il boosting, come SQV e LPV (38, 39), si è dimostrata tale tendenza. Probabilmente l’entità delle riduzioni plasmatiche non riveste una importanza sostanziale per una paziente che alberga un virus wild type, mentre potrebbe acquistare maggiore consistenza nel caso di pazienti con pregressi fallimenti multipli, a maggiore rischio di insufficiente esposizione plasmatica anche per minime riduzione delle concentrazioni.
Considerazioni generali
Oltre ai succitati scenari l’adozione del TDM può essere utile in tutti i casi di posologia non convenzionale o di inspiegabile fallimento virologico. Ricordiamo a quest’ultimo proposito che il TDM non è riconosciuto come uno strumento atto primariamente alla valutazione dell’aderenza terapeutica del paziente. Le informazioni che possiamo trarre su quest’ultima sono per lo più limitate alla correttezza dell’ultima o di poche tra le ultime assunzioni di farmaco. Esistono ad ogni modo studi che mostrano come il TDM possa essere uno strumento aggiuntivo nella valutazione dell’aderenza del paziente, specie se effettuato in maniera non programmata. In ogni caso è necessario ribadire un concetto fondamentale legato all’esecuzione del TDM nella pratica clinica. Siamo abituati, infatti, a considerare utile il TDM solo quando ci fornisce un risultato positivo, ovvero una alterata esposizione farmacologia e quindi la necessità di azione in senso correttivo. In realtà anche il risultato negativo, ovvero il rilievo di corrette concentrazioni plastiche, può rappresentare un elemento clinico di rilievo. Se si devo indagare un inatteso fallimento virologico, per esempio, l’evidenza di concentrazioni di farmaco adeguate potrà essere utile per escludere problematiche di malassorbimento, interazione farmacologica o comunque alterazione del profilo farmacocinetico in quello specifico paziente, concentrandomi sulle altre possibili cause di insuccesso terapeutico.
Raccomandazioni in merito all’effettuazione di
prelievo per TDM
Vi sono alcune semplici raccomandazioni che non devono essere disattese dal clinico allorquando si fa sottoporre un paziente ad un prelievo per TDM, qualsivoglia ne sia la motivazione. In primis accertarsi che il prelievo venga eseguito al termine dell’intervallo di dosaggio nel caso di PI e NVP, in modo da fornire una esatta valutazione della Ctrough. Ovviamente nella pratica clinica è difficile eseguire il prelievo esattamente al termine di tale intervallo, in ogni caso un anticipo o ritardo di almeno un’ora è tollerato. Il problema orario viene a porsi più facilmente nel caso di somministrazioni once-daily, spesso effettuate dal paziente nelle ore serali: in tal caso, considerato che la valutazione o l’estrapolazione di concentrazioni intermedie a concentrazioni di fine intervallo di dosaggio non è ancora standardizzato nella pratica clinica, il consiglio è di far assumere al paziente il farmaco o la terapia in toto al mattino per i 5 giorni precedenti il prelievo ed ottenere in tal modo una Ctrough. Per quanto attiene ad EFV, solitamente assunto alla sera anche per motivi di tollerabilità, invece non esistono problemi di sorta, in quanto le valutazioni correnti si riferiscono al prelievo del mattino, raccolto tra le 8 e le 14 ore dopo la somministrazione. Un altro elemento fondamentale è la registrazione degli orari di assunzione e di prelievo del paziente, dato che spesso per mancanza di abitudine o disattenzione viene omesso. In realtà solo questi dati ci certificano la correttezza della tempistica di prelievo e permettono una valutazione critica del risultato allorquando tale tempistica non sia stata pienamente rispettata. Sulle schede di raccolta campioni TDM viene infine richiesto di segnalare i farmaci concomitanti, intendendo anche i composti non antiretrovirali. Questa informazione è anch’essa cruciale nell’interpretazione dei risultati, laddove permette di verificare la presenza di farmaci con note potenzialità di interazione o di sospettarne la presenza qualora ci si trovi di fronte ad una interazione ancora non nota. Come esempio di quest’ultima evenienza citiamo l’inattesa interazione tra enfuvirtide e TPV recentemente evidenziata dal nostro gruppo (40).
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